LA MIA LUCE NON MI FA PAURA

catalessi

Il percorso in PNL che ho intrapreso un anno fa con Lapo e Stefania mi ha dato tanto: ha arricchito la mia professionalità, consentendomi di affinare e integrare tante competenze che già avevo maturato nel tempo, mi ha consegnato tecniche e strumenti utili per migliorare la mia vita quotidiana e aiutare altri, mi ha regalato momenti di gioia e di allegria condivisa, mi ha consentito di incontrare persone e stringere relazioni autentiche, che hanno un grande valore in sé, indipendentemente da quanto potranno durare nel tempo…

Soprattutto mi ha insegnato che non devo aver paura della mia luce!

“Si, ebbene, si! Così, proprio così!” sono le parole che continuano a risuonare dentro di me con voce sincera e appassionata: hanno un timbro maschile o femminile, variano di volume e di intensità, si riferiscono ad esperienze che avrei ritenuto impossibili o mi incoraggiano a muovermi per raggiungere risultati desiderati ed ambiti; sempre mi incitano a osare di tirare fuori e manifestare quella energia e quel potenziale che già sono dentro di me.

Questo è il grande valore simbolico che va ben oltre l’esperienza in se stessa “impossibile” che ho vissuto con il corpo in catalessi, dritto come una tavoletta tra due sedie che lo sostenevano solo alle estremità.

Ero in uno stato di trance non molto profonda: ricordo benissimo la voce di Lapo che mi dava le istruzioni “Entra dentro di te….rilassati…senti il tuo corpo che diventa come l’acciaio…e ora, mantenendo questa sensazione, sentilo come se dei palloncini lo sollevassero…” e quella di Stefania che mi sottolineava i passaggi con suoni onomatopeici, mi incitava con il suo “Bene, così!” Intanto io percepivo con chiarezza i cambiamenti nel mio corpo: il compattarsi dei muscoli che allargava lo spazio tra la pelle e gli abiti, la lieve sollecitazione della mano di Lapo che muoveva verso l’alto la mia cintura, il farsi leggero delle mani che si staccavano dalla pancia, lo sfilare della sedia… forse si è affacciato alla mia mente anche un sorriso autoironico quando ho sentito che la rotondità adiposa della mia natica era di freno al bordo ricurvo della sedia; ma sapevo che “la cosa impossibile” era lì, si poteva fare…e che non sarei caduta!

Per questo quando poi mi sono alzata ho stretto Lapo in un abbraccio commosso, pieno di gioia e di gratitudine…anche per me stessa. Avevo saputo dar seguito al mio entusiasmo, quella voce di dentro che alla richiesta di chi voleva fare l’esperienza mi aveva fatto letteralmente saltare sulla sedia, alzando tutt’e due le braccia mentre affermavo risoluta “IO!”

Ricordo la frase di Eraclito che avevo inviato a Stefania all’inizio di questo percorso “chi non spera non troverà l’insperato: non v’è ricerca che vi conduca, né via”. Sabato scorso ho toccato l’insperato, che non sapevo cos’era: il coraggio di allargare le ali del desiderio ed esprimere un lampo della mia luce.
Lo so che con la luce prendono corpo le ombre; ma so anche che è nel dialogo tra luce ed ombre che si movimenta e acquista spessore la vita.

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Giovani e memoria

lapide martiri campo marte

La memoria dei giovani è corta.
Quando ancor lungo la speme e breve ha la memoria il corso, scriveva Leopardi.
Mi chiedo se è ancora vero che per loro il corso della speranza è lungo o se la disillusione ha già preso il suo posto, prima ancora di averne assaporato il gusto.
“La memoria genera speranza” è stata la frase che ho utilizzato in contesti e per finalità diverse in questi ultimi anni. Certamente è vero per chi come me ha vissuto le stagioni della speranza e sa che ciclicamente gli orizzonti si aprono o si imparano le lezioni della storia o si recupera l‘entusiasmo di un tempo per il semplice fatto di riviverlo nella mente.
Per chi è giovane non è così.
Resta però la capacità di riconoscersi in altri giovani, in altre storie e di sentire proprie le loro speranze.
È la lezione grande che ho appreso dalle celebrazioni in memoria dei martiri di Campo di Marte, quando ogni 22 marzo, da sindaca di Vicchio, partecipavo alla manifestazione allo stadio e ad assistere c’erano le scolaresche del quartiere, insieme a vecchi sopravvissuti della Resistenza.
I martiri di Campo Marte sono 5 giovani la cui vita si è interrotta a 21 anni.
Ragazzi di campagna, strappati dalle loro case nelle campagne di Vicchio, processati e fucilati perchè “renitenti alla leva”, colpevoli cioè di non essersi arruolati nella Repubblica di Salò. Tra loro c’era anche un ragazzo sardo, di Maracalagonis, militare di stanza a Vicchio quando fu siglato l’armistizio dell’8 settembre e che dopo lo sbando aveva trovato ospitalità nella famiglia dove c’era l’amico e coetaneo che con lui sarebbe stato ucciso.
I loro nomi: Antonio Raddi, Leandro Corona, Ottorino Quiti, Adriano Santoni, Guido Targetti.
L’esecuzione, che avvenne là dove c’è lo stadio di Firenze, fu una “cerimonia” spettacolare e macabra: erano stato forzati ad assistervi le reclute e altri giovani prelevati dalle caserme e dalle carceri, perchè imparassero la lezione.
Le cronache e le testimonianze di chi fu presente a quel fatto sono sconvolgenti, tanta fu la barbarie esibita. Tra i presenti lo sgomento fu terribile. Ci fu chi svenne. Ci fu anche – e furono i più -chi ebbe da questi fatti la spinta decisiva per unirsi ai partigiani.
Il 25 aprile del 2008, all’altare della Patria, per la festa della Liberazione, i cinque martiri sono stati insigniti della Medaglia d’oro al Valor civile. La medaglia di Ottorino Quiti, di cui non sopravvivono parenti diretti, è stata consegnata a me, allora sindaco di Vicchio.
La responsabilità di riceverla è stata enorme e subito ho sentito che dovevo fare qualcosa perchè proprio perchè non c’è un erede di Ottorino, ci sono tanti eredi.
Sono andata nel pomeriggio di quel 25 aprile alla festa dove sapevo di trovare molti giovani: volevo che sentissero che quella medaglia non è un cimelio, ma un simbolo di cui appropriarsi perchè la memoria di quei ragazzi resista al tempo.
La lapide con i loro nomi è allo stadio, sotto la curva di Maratona, in un angolo di città frequentato da atleti, vibrante dei cori degli sportivi, animato dai concerti rock: un luogo di giovani, dove la loro gioventù è stata spenta i primi giorni di una primavera lontana.
Un luogo da dove loro, meglio di chiunque altro, possono parlare ai giovani di oggi e a mandare un messaggio di impegno e di speranza.

HO VISSUTO UNA STAGIONE FELICE

primavera 74

 

– Si. Ho vissuto una stagione felice, la primavera del 74
– Ma che sarà mai successo di così entusiasmante in quella primavera cosi lontana?
– Tutto. Sai quando si muove una pedina e tutto cambia?
Così avvenne allora: dopo tanta attesa e tanto allenamento presi il volo…e il mondo non fu più lo stesso.
Non ero più tanto giovane nella primavera del 74 e finalmente avevo trovato una casa tutta per me, non da condividere con altre o dove farmi ospitare per una notte.
E che casa!
Sui tetti di Borgo Pinti, faticosa da conquistare dopo oltre 90 scalini, con i pavimenti di mattone sconnessi in più punti, i fili dell’impianto elettrico che dovevano essere ancora quelli che avevano sostituito le candele…ma in fondo si apriva l’altana. Un grande spazio intimo e aperto da dove guardare il cielo in costante cambiamento, misurarsi con la cupola, enorme presenza materna che mi accoglieva ad ogni rientro, così diversa da come si mostrava dalla strada o dal pieno delle piazze.
Uno spazio magico dove sognare ad occhi aperti, organizzare cene al chiaro di luna, asciugarsi i capelli al sole anche in pieno inverno.
Ricordo bene il colpo di fortuna.
Avevo messo un’inserzione sul quotidiano “La Nazione” – Giovane insegnante referenziata cerca piccolo appartamento centrale semicentrale-
Risposero in tre: un vedovo depresso che viveva con due figli in una casa buia in Ponte alle Mosse e sperava di trovare nell’”insegnante referenziata” una sostituta della madre per l’educazione dei figli, una distinta signora borghese in via Masaccio che affittava una camera con bagno – ingresso indipendente- attigua al suo appartamento e i miei “padroni di casa” che avevano nel palazzo di famiglia quel piccolo appartamento all’ultimo piano lasciato da poco da una vecchia cantante lirica. Non in ottime condizioni, è vero, ma pur sempre nel palazzo di famiglia!
Mi presentavo bene, ma alla richiesta precisa delle referenze, non sapevo che nomi fare. Mi venne in aiuto la figlia del padrone di casa, chiedendomi se conosceva don Remo, che insegnava nella sua stessa scuola e che veniva da Vicchio. Fu così che, grazie ai buoni uffici del prete, la casa sui tetti fu mia.
E con la casa tutto cominciò a cambiare…arrivò la chiamata per insegnare nei corsi per adulti delle 150 ore, un’avventura che iniziava allora.
“I metalmeccanici a scuola? Per far che? Per suonare il clavicembalo?”
”Ebbene si, per suonare il clavicembalo” si dice fosse stata la mitica risposta di Bruno Trentin a chi gli chiedeva il perché del diritto allo studio per i lavoratori.
Non avrei insegnato il clavicembalo, ma si sarei messa in gioco per far crescere la consapevolezza mia e dei miei allievi operai e anche io avrei imparato tanto da loro…anche ad aprirmi all’amore.

…e il 1 marzo festeggio i quarantanni!

Grazie, Messer Filippo!

cupola notturna

Alzo gli occhi dalla tastiera e dalla finestra intravedo la cupola rosa, prodigio di grazia e possanza. La consuetudine me l’ha resa familiare, eppure mi sorprende ogni volta.Cattura il mio sguardo e per un attimo sospendo il respiro ogni volta che mi affaccio in terrazza.

L’ho vista sotto ogni luce e sotto ogni cielo: immobile eppur diversa, straordinaria lezione di bellezza quotidiana e fuori dal tempo che questa città mi dona ogni giorno.

Scendo le scale, esco per strada e mi aggrediscono i rumori, le bici parcheggiate sullo stretto marciapiede, lordato dalle cacche dei cani e dal vomito notturno degli ubriachi. Un altro mondo.

Eppure ho imparato la lezione: so che se resto vigile la meraviglia mi potrà sorprendere ancora, quando meno me lo aspetto. Il profumo segreto di un nespolo in fiore in un giardino nascosto. Un “buon giorno” con il sorriso negli occhi da un’ortolana al mercato. Un arcobaleno iridato in una pozzanghera. Un volo di uccelli acquatici a pelo dell’Arno e le canoe che scorrono lente.

Una volta che avrete imparato a volare, camminerete sulla terra guardando il cielo perché è là che siete stati ed è là che vorrete tornare” – Leonardo da Vinci.

BENESSERE È CANTO CHE NON SI CANTA DA SOLI

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Benessere:
È canto che non si canta da soli
Voci vicine, voci lontane…

È mistero che attinge all’abisso del cuore
È gioia che sgorga improvvisa
Leggero sospiro che lega col fuori

Parola
E non solo parola

Si veste col gesto
Si scopre nel gioco

Latte e seme

Dischiude le porte: abbraccia ed accoglie
Si nutre di doni che grato ricambia

Fertile desiderio che spinge e accompagna
Certezza feconda che apre al domani

Sono passati quasi due anni da quando prese questa “strana forma” la scaletta per raccogliere le idee in vista del convegno sul “Buongoverno per il benessere di donne e uomini nelle terre di Siena” che concludeva un lungo percorso di ricerca e di animazione territoriale.
Ho continuato a riflettere, a scrivere, a progettare per trovare le strade per dar vigore a quel “leggero sospiro che lega col fuori”.
Dopo che ho chiuso la stagione dell‘impegno diretto nella politica e nelle istituzioni, ho lavorato molto su di me, mi sento in pace…ma il mio benessere non è tale se per proteggermi chiudo le finestre al dolore, alle miserie, alle piccinerie del mondo circostante.
E allora “latte e seme”: capitolo appena accennato. Nutrirmi e nutrire con il meglio che ho saputo apprezzare, non smettere di curare i miei campi di presenza per raccogliere ed offrire merce genuina ed autentica; ma anche continuare a seminare, senza paura di aprire la mano e lasciare andare al vento!
Arriveranno stagioni migliori!

COLTIVARE LA BELLEZZA PER ALIMENTARE LA CITTADINAZA

casa-giotto

Coltivare, dal latino colere (dalla cui radice anche colonia, culto, cultura…) indica l’azione del lavorare la terra per raccogliere frutti, ma ci offre indicazioni anche su come questa azione si caratterizza. È un’azione costante e diversificata in relazione ai tempi e ai bisogni (il “colono” vive nel campo), attenta e rispettosa, quasi reverenziale
Bellezza: fenomeno che colpisce i sensi e provoca un sentimento sincero e libero di ammirazione e di piacere. Si può manifestare in natura (un paesaggio, un’alba, il cielo stellato….), nelle relazioni umane (un sentimento che si manifesta attraverso segni percepibili: uno sguardo, un gesto,un sorriso…..), nelle produzioni umane (un bel manufatto, un’opera d’arte…)
Alimentare: dare nutrimento per far crescere
Cittadinanza: rapporto tra individuo e società, inteso come partecipazione attiva del soggetto alla sfera pubblica

Da queste stringatissime definizioni si possono far scaturire pagine e pagine di riflessioni e tante ipotesi di progetti, capaci di saldare insieme percorsi educativi e/o di cittadinanza, la dimensione etica con quella politica, l’attenzione ai temi dell’ambiente con quelli dello sviluppo locale….

Mi preme sottolineare alcuni aspetti
Coltivare non è unicamente il “piacere di fare” ma presuppone che ci siano dei frutti tangibili da raccogliere, così come la “bellezza” non è un’entità astratta, ma “incarnata”. D’altra parte per “coltivare” occorre uno sviluppo competente di consapevolezza: non basta offrire uno strumento (vedi le “vie del …bello” ) se non cresce insieme la capacità di sapersene appropriare

Tenere congiunte le diverse manifestazioni della bellezza (natura, relazioni, manufatti) in una sorta di “sistema del bello” può favorire l’attivazione e la realizzazione di progetti che non solo facciano crescere la consapevolezza e la competenza soggettiva, ma per questa via rendano “più bella” la realtà circostante

La cittadinanza si esprime per autonoma competenza dei “cittadini” ma si alimenta in uno scambio fecondo con i luoghi del potere politico ed istituzionale: occorre che ci siano procedure che facilitano il confronto e la reciprocità

Ho lavorato molto su questi temi, ai quali ho cercato anche di far riferimento durante la mia stagione di sindaco di Vicchio, ad esempio con l’allestimento museale della Casa di Giotto e il suo laboratorio del colore, teso a costruire un polo di educazione al bello rivolto al turismo scolastico e di incontro tra esperienze, linguaggi, generazioni.

Mi piace riprenderli e socializzarli, perchè possano servire ad altri in questa fase di dibattito politico e di programmi per le elezioni amministrative e perchè siano per me stessa stimolo di nuova progettualità.

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A VECCHIANO SIAMO COSÌ

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E con questa frase lapidaria sono stata tacitata, costretta a prendere atto che esistono ancora paesi e sistemi di relazioni dove l‘accoglienza non è un optional e se la sera vai a bere un bicchiere di vino e a mangiare un tagliere di affettati e formaggi, ci sta che te li gusti in compagnia…e che poi tu non debba nemmeno pagare il conto!
Ho scoperto Vecchiano di recente, grazie ad un incarico di formazione per il Comune. Avevo una vaga idea che si trovasse tra Pisa e Viareggio, senza riuscire a collocarlo sulla cartina geografica.
Non è una realtà fuori dal tempo, anche se il silenzio e l’atmosfera della piazza sonnacchiosa mi portano in una dimensione surreale. Mi raccontano infatti che nella fascia lungo la pineta il mercato della droga dilaga, la prostituzione e la micro criminalità d’inverno s’impossessano di aree intere, le difficoltà di dialogo e di rapporto tra generazioni sono le stesse delle grandi città…
Trovare un posto dove cenare, in una sera fredda e piovosa, se non hai la macchina può apparire un’impresa. Non ho visto l’insegna dell’unica trattoria, non mi andava la pizza a taglio e allora, seguendo l’indicazione che mi avevano dato nel pomeriggio, ho girato l’angolo, sono entrata nell’enoteca di Marco e mi sono sentita subito a mio agio, anche se ero nuova del posto e c’erano pochi avventori.
È trascorsa piacevolmente quasi un’ora, mentre fuori la pioggia cadeva sempre più battente ed io scoprivo che Marco aveva la metà dei miei anni, che siamo nati entrambi d’aprile, io il 13 e lui il 17, che era contento dell’attività intrapresa, perchè gli consentiva di ritrovare le sue radici di paese -che aveva lasciato ragazzo per l’avventura del calcio professionista. Aveva cominciato con un piccolissimo spazio di vendita di vino sfuso e da poco aveva aperto questo più ampio che gli dava il piacere di offrire- con un bicchiere di buon vino- uno luogo accogliente dove potersi incontrare, indipendentemente dall’età.
Poche parole, ma abbastanza da scoprirci in sintonia: persone che privilegiano i valori dell’incontro, della relazione, dell‘appartenenza ad un luogo ed a una comunità rispetto ad altri beni materiali.
La settimana successiva non ho avuto esitazioni sulla scelta del luogo per mangiare qualcosa all’ora di cena.
Questa volta c’era più gente. Mi sono seduta in mezzo a loro, senza sentirmi estranea, ma al tempo stessa osservatrice partecipe. Quando mi hanno portato il bicchiere di vino un signore ha detto “Il vino l’offro io” e, alle mie resistenze, “Così lo berrà alla nostra salute!”
Dopo ho scoperto che mi aveva offerto anche il tagliere di affettati e formaggi.
Mi dispiaceva non poterlo ringraziare, ma non lo vedevo più nei paraggi. Poi è velocemente ricomparso e a me che dicevo che non c’era motivo di tanta gentilezza ha risposto “A Vecchiano siamo così!”
Bella Vecchiano, nel tempo e fuori dal tempo. Non solo per il suo arenile, la pineta, la parete di roccia, il Serchio; ma perchè c’è chi sa ricreare luoghi dove ancora si offre da bere ad una matura signora sconosciuta, senza un motivo preciso, ma perchè “A Vecchiano si fa così”

Le parole sono semi

quaderni pasquale

Per Pasquale e i suoi quaderni

Le lasci andare e si disperdono al vento.
Forse troveranno un luogo dove posarsi,
forse rotoleranno qua e là fino a cambiar natura o logorarsi,
forse resteranno impigliate nella vischiosità dei luoghi comuni o dei fraintendimenti…
Puoi però depositarle con cura o gettarle alla rinfusa nel quaderno che ti accompagna e allora il seme, deposto dall’inchiostro sulla carta, racchiuso tra le pagine piegate, comincerà a germogliare…
Quella parola ha ora una forma.
Concepita nella tua mente è stata partorita dalla tua mano: la riconosci tua.
Uscita dal lessico dei vocabolari è diventata una tua creatura, inconfondibile e unica per la rotonda morbidezza delle vocali o per il tratto nervoso che taglia la ti.
Puoi osservarla da fuori, dialogare con lei: anche dopo tanto tempo puoi riconoscere il senso che aveva quando è stata tracciata sul foglio e misurare la diversità dal presente.
Le parole depositate nel quaderno ti accompagnano nel tempo, ti aiutano a prenderti cura di te, a rendere preziosi momenti che avrebbero potuto andar dimenticati, a coltivare il campo dei pensieri e delle emozioni.

La bellezza nelle relazioni Appunti di lavoro.

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Cercavo altro nel computer. Ho aperto un vecchio file con gli appunti per un progetto che non si è mai realizzato. Taglio, copio, incollo, modifico…e lo socializzo sul blog!

Il luogo dove si doveva fare il progetto è una residenza per anziani

Quando sono venuta a … per il progetto “La bellezza nelle relazioni”  è avvenuto un episodio che continuo a ricordare con grande intensità.
Parlavamo tranquilli in una stanza che sembrava fatta per il raccoglimento ed il dialogo: dialogo che non ha bisogno di alzare la voce per crescere, che anzi si nutre di raccoglimento e della pace circostante.
Ad un certo punto una voce alta è entrata tra noi. Prepotente. Era una voce di donna, una voce “anziana”, che però arrivava con straordinaria vitalità.
All’inizio ho provato una sensazione quasi di disturbo: quella voce interrompeva il flusso dei nostri discorsi e mi distraeva.
Poi mi sono lasciata distrarre. Invece che sforzarmi di chiudere le mie orecchie (e bloccare così la mia capacità di sentire), ho ascoltato…ed è arrivata la percezione di una straordinaria libertà e vitalità che si esprimeva in quel canto! Ho cercato di ascoltare meglio: era una melodia che non conoscevo e la voce era intonata.
Finito il nostro incontro ti ho chiesto di presentarmi la “cantante” ed abbiamo scambiato alcune parole. Poche e non lineari – come spesso sono le parole dei vecchi che danno per scontato che tu conosca l’orizzonte della loro storia – capaci però di aprire scorci su una realtà inimmaginabile oggi: sulla vita di una venditrice ambulante che in Lucania vendeva l’acqua, sui canti in coro mentre si andava in pellegrinaggio al santuario…e anche sulle strade che una volta non c’erano e oggi ci sono.

Ho cercato di partire da questo incontro e dalla sua intrinseca bellezza per riflettere su come potremmo testimoniare la bellezza per farla sentire ad altri.
La bellezza infatti ha caratteristiche riconoscibili attraverso la percezione: si vede, si tocca, si ascolta e per testimoniarla in maniera adeguata occorre una forma bella…e allora se già è difficile cogliere la bellezza nelle relazioni che è fatta di una materia molto sottile (sguardi, sorrisi, gesti, parole..) ancora più impegnativo diventa testimoniarla adeguatamente.

Ipotizzo un percorso a tappe

1.Riconoscere la bellezza
Acquisire la chiave dell’attenzione
Osservare
“L’ho vista!”: riconoscerla nei suoi tratti distintivi e tangibili

2. Custodire la bellezza
Essere consapevoli della bellezza che abbiamo
Saperla descrivere
Individuare e promuovere iniziative ed azioni per salvaguardarla ed accrescerla

3.Testimoniare la bellezza
Interrogarsi sulle risonanze tra mondo esterno/mondo interiore
Arrivare ad esprimere un giudizio su “La bellezza delle relazioni” nella nostra realtà valutandone gli aspetti che appaiono più pregevoli e quelli invece che piacciono meno e che potrebbero essere migliorati
Produrre artefatti o eventi capaci di testimoniare pubblicamente il percorso fatto e che restano come patrimonio di arricchimento del bello circostante e delle esperienze vissute e socializzate.

La Madonna della Candelora

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Una festa minore, quella della Candelora, ma che occupa un grande posto nei miei ricordi.
Alla periferia di Vicchio, ai margini dei campi pianeggianti vicino alla Sieve sorge la villa de La Madonna, una bella costruzione padronale affiancata da una cappella di famiglia. La posizione nel fondovalle assolato e poco battuto dal vento la rendeva una meta ideale per le passeggiate invernali.
Là tutti gli anni il 2 di febbraio si svolgeva la festa della Candelora. Ricordo che la maestra ci accompagnava in fila fin laggiù dove c’erano bancherelle che vendevano dolciumi e gruppi di uomini giocavano alla rulla, facendo rotolare lungo il sentiero una grossa forma di formaggio pecorino lanciata con la spinta di uno spago velocemente srotolato.
Era la prima uscita che preannunciava la fine dell’inverno ed era una gioia camminare all’aperto, anche se infagottate nei cappotti e con il naso che gocciolava.
Si tornava a casa con una candelina lunga e sottile nelle mani e con in bocca il sapore delle “scole”, una specie di pan di ramerino al profumo di anice dalla strana forma romboidale.

Della cerimonia religiosa e del significato della ricorrenza non ho memoria.

Forse avrei dimenticato anche la festa se qualche anno fa non avessi accompagnato mia madre in una passeggiata pomeridiana a prendere un po’ di sole. Erano i primi tempi della sua malattia, la SLA non era ancora conclamata e la mamma aveva solo bisogno di un braccio che la sostenesse nel suo incerto procedere.
Quel pomeriggio c’era un insolito movimento sullo stradello di Zufolana, in direzione de La Madonna: era prevista un’apertura straordinaria della cappella per celebrare la solennità con un rosario. Senza bisogno di parole capii che che ci saremmo andate anche noi.
Vissi così un’ora intensa di estraniata presenza: ero estranea a quel rito, non condividevo le preghiere e le giaculatorie che ascoltavo recitare con voci che mi suonavano monotone e distratte, non ero spinta né sostenuta da sentimenti di fede, eppure poche volte mi sono sentita così presente a me stessa e vicina alla mamma che, lei si, era sostenuta da una fede sincera e profonda.
È stato quello il momento in cui ho sentito che la distanza tra i nostri diversi essere donna era colmata, che eravamo madre e figlia, che lei era in me e ci sarebbe rimasta, così come io ero stata in lei e che questo non poteva esser cancellato dal mio autonomo andare nel mondo…e che un grande amore ci univa.
Con lei che recitava il rosario con sincera fede religiosa anche io recitavo la mia preghiera laica a questa grande madre che tutto accoglie e che tutto abbraccia, a cui anche io mi potevo affidare per sostenere ed essere sostenuta.
Gli anni successivi sono stati carichi di dolore, ma anche di straordinaria pienezza di vita e di amore.
Sulla tomba di mia madre c’è una ceramica dipinta che recita “Grazie alla vita, che mi ha dato tanto, che mi ha dato il riso, che mi ha dato il pianto” e raffigura il gesto accogliente della Madonna dipinta da Giotto nella “Presentazione al tempio”. La Madonna della Candelora, appunto.