AQUILONE VERDE E GIALLO

aquilone

 

Un aquilone giallo e verde vola nel cielo azzurro. La sua coda danza con nuvole leggere: tra gli anelli che la compongono anche qualche nota di rosso. Due fili di rafia intrecciati ancorano il cielo alla terra.
È l’immagine arrivata dal profondo e che coltivo per mobilitare la mia energia verso la primavera.
Mi sento appesantita – non solo nel corpo- e ho bisogno di slancio per esprimere il meglio di me, riconoscere e accogliere i frammenti di gioia e bellezza quotidiana che per essere colti al volo richiedono agilità e leggerezza.
Una frase mi viene incontro mentre annoiata navigo nel WEB senza un orientamento preciso: una certa dose di difficoltà è di aiuto per l’uomo: per sollevarsi gli aquiloni hanno bisogno di vento contrario e non a favore.
La mia mente si mette in moto: affiorano echi poetici, ricordi confusi, figure di tai chi. Un lavorio caotico e confuso che preannuncia un movimento interiore, che starà a me orientare e dirigere per essere coach di me stessa, verso la primavera dei miei settanta anni all’insegna dell’aquilone.
Lieta di aver trovato l’immagine che mi sosterrà nella ricerca e nel percorso, già la pesantezza acquista un altro sapore: è la forza di gravità senza la quale non ci sarebbe spinta né slancio, il vento contrario da affrontare per salire su in alto, la radice ancorata alla terra che porta linfa alle gemme che vogliono aprirsi.
Ancora non ho deciso se la vision dell’aquilone è quella che voglio per questa fase preparatoria degli ultimi sessantanni o se mi accompagnerà più avanti.
So che mi sta offrendo suggestioni utili e importanti: mi dice del mio desiderio di affidarmi al soffio mutevole del vento, lasciando andare la pretesa di tenere salda una rotta predefinita e senza sorprese. Mi invita a salire in alto, a distaccarmi dalle prospettive anguste per allargare l’orizzonte. Mi stimola a correre tenendo saldi nelle mani i fili che ben conosco, che da adolescente intrecciavo all’uncinetto per far cappelli e guadagnarmi qualche spicciolo e che oggi posso sdipanare certa della resistenza della loro fibra.
Ho ancora molto da fare per tradurre queste suggestioni in scelte, progetti ed azioni.
Sono potenti i freni della sfiducia, della diffidenza, dell’inerzia, della stanchezza, dei conformismi. Le cronache e gli scenari presenti alimentano l’amarezza disincantata e il disimpegno: brutture, ingiustizie, storture si affacciano prepotenti ed urlano ovunque.
È difficile scegliere un aquilone verde e giallo, con qualche nota rossa, per disegnarsi il futuro a quest’età.
Le scelte difficili e un po’ contro corrente mi hanno sempre stimolato.

…e se il mio aquilone evocasse un’aquila possente?

 

aquila

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L’ETA’ DELLA FELICITA’

mano vecchia e giovane

Un bel servizio fotografico con immagini di uomini e donne sopra i settanta anni fa mostra di sé sulle pagine on line di un importante quotidiano. Raccoglie volti sorridenti ed ironici, corpi snelli, forti, agili e dinamici, colti in luoghi o in attività in cui non si immaginerebbero dei nonni, ma piuttosto dei nipotini: piste di pattinaggio sul ghiaccio, paracadutisti, acrobati.
La didascalia afferma “Si tratta di storie ed emozioni che non hanno nulla a che fare con la fantasia e che compongono il progetto “The Age of Happiness” (“L’età della felicità“) del fotografo e giornalista Vladimir Yakovlev. Il progetto è nato per offrire una nuova percezione della vita dai 70 anni in poi”
Guardare la galleria di immagini mi ha fatto sorridere…ma mi anche messo tristezza. Non una tristezza colorata d’invidia (già ora non ho un corpo paragonabile a quelli fotografati e solo in sogno riesco a piroettare sulle punte dei piedi) e nemmeno di sarcasmo: non sono immagini di vecchi patetici che si atteggiano a giovani. Sono proprio belli, sorridenti, a loro agio e orgogliosi delle loro prestazioni. Sicuramente fieri di inviare un positivo messaggio di fiducia.
È una galleria che sembra però alimentare il mito dell’eterna giovinezza, negare la vecchiaia, che sparisce anche dal vocabolario.
La sento invece avvicinare: nel cambiamento dei ritmi biologici, nell’energia che si fa più sottile e penetrante, nel corpo che si stanca diversamente…soprattutto nel percepire la finitezza e il limite. Altri tempi rispetto a quelli in cui pensavo di cambiare il mondo e di avere davanti a me stagioni infinite!
Eppure, fuori dal mito giovanilistico, anzi proprio a partire dalla consapevolezza del tempo che passa, sento che può essere stagione di grande felicità, anche se il corpo è più stanco, appesantito, lento.

Mi dico che anch’io vorrò essere felice nei miei 70 anni (e anche in quelli dopo!) e che lo sarò se saprò accettare con gratitudine lo scorrere della vita e la prospettiva che si fa più corta.

Mi prenderò cura di me in altro modo: sarò più attenta alla misura che all’intensità del piacere, dal cibo all’ebbrezza delle sensazioni forti.
Gusterò ogni giorno con la sapienza che il tempo mi ha dato.
Osserverò con sguardo meravigliato e attento le tracce della bellezza: dei sorrisi, dei gesti, come dei panorami maestosi e delle ragnatele che brillano dopo la pioggia.
Continuerò a viaggiare con la fantasia e l’immaginazione se e quando il corpo sarà affaticato: tornerò nei luoghi che ho amato e riascolterò la musica del vento e del mare, mi farò accarezzare la pelle dall’aria secca del deserto, respirerò la luce frizzante dell’alba e mi abbandonerò al languore dei pleniluni d’estate.
Userò parole e immagini per dare forma ai pensieri e offrire alimento a chi vivrà dopo di me.
Vorrò restare un po’ folle, sorprendere e sorprendermi, con la civetteria di chi sa molto e resta ingenua.

IL PIANORO DELL’IMPERMANENZA

cielo autunnoIl chiaro del bosco è un centro nel quale non sempre è possibile entrare
Maria Zambrano

È in alto, ma non sulla vetta.
Si arriva con il fiato grosso, ma il respiro e lo spazio si aprono dopo la salita, anche se il pendio ti dice che non è ancora finita.
Giganti secolari lo abbracciano e tra le rocce attecchiscono giovani piantine, promessa di futuro.
Lo avevo individuato come il luogo in cui in un giorno (lontano…tanto lontano…) disperdere le mie ceneri.
Era allora – solo tre anni fa – molto diverso da come si presenta ora. Mi avevano colpito e affascinato gli alberi più imponenti ed antichi della marroneta, uno in particolare, che si sviluppava su tre tronchi giganteschi che partivano dalla stessa base.
Oggi non c’è più: abbattuto l’inverno scorso, a testimoniare la sua “storica” presenza restano solo alcune grosse cataste di legna.
Ieri mattina ho lavorato a lungo sul pianoro. Il cielo era grigio. Soffiava un forte vento che disperdeva in turbini le foglie che pazientemente raccoglievo con il rastrello. Ero stanca: la notte non avevo dormito bene, preoccupata per l’annunciato temporale e affaticata dal lavoro sotto la pioggerellina battente del giorno prima.
Mi sentivo come la protagonista di una fiaba, che deve affrontare una prova difficile, che si complica ad ogni passaggio.
Il mio compito era quello di ramazzare foglie e detriti, di raccoglierli perché non siano d’ostacolo alla raccolta dei marroni e di ammassarli in maniera ordinata facendo attenzione a non ostacolare lo scorrere delle acque piovane. A dirlo sembra abbastanza facile…Non c’è solo la fatica del braccio che movimenta masse di materiale via via crescente; l’occhio e lo sguardo devono leggere pieghe e segni del terreno per individuare la direzione del moto e – soprattutto- il luogo dove disegnare con le “relle” le lineee lunghe e sottili o più spesse e massicce lungo le quali compattare i detriti.
Impercettibilmente la sottile inquietudine, la fatica, la stanchezza hanno lasciato il posto ad una grande pace.
Il pianoro mi parlava. Mi diceva che un poco alla volta, con lucidità e determinazione, si realizza il cambiamento. Mi incoraggiava ad impegnarmi per renderlo più pulito ed accogliente, sapendo che sarebbe stato per una breve stagione, ma che valeva la pena. Mi ricordava con voce dolce che devo morire e apprezzare ogni momento di vita. Mi invitava ad osservare tanti segni di durata e di trasformazione, di conflitti e di pacificazioni. Mi faceva sentire minuscola e gigantesca, affaticata e forte.
Nella mia mente si affacciavano ricordi di studi e di letture, immagini e fantasie. Soprattutto si acutizzava l‘ascolto di quanto vibrava intorno a me e le sue profonde risonanze.

LA FENICE

padre e figlio

La marroneta de La Fenice è diventata per me il luogo simbolo della rigenerazione e della fiducia nel futuro, anche nei momenti più difficili.
Conoscevo le marronete del nostro Appennino e mi erano sempre apparse luoghi incantati. Quando sono stata sindaca di Vicchio ho cominciato a capire meglio il valore non solo ambientale, ma sociale ed economico del marrone per territorio mugellano e ho cercato di promuoverlo.
È stata però l’esperienza diretta, maturata in questi ultimi anni, che mi ha consentito di coglierne lo staordinario potere per lo sviluppo della mia crescita personale e di autentica rigenerazione.
Ho trascorso molte giornate a lavorare con Andrea e Valentina. Ho faticato molto, anche in condizioni non facili: al caldo infastidita dai tafani o sotto la pioggia stando attenta a non scivolare in un ripido fosso. Ho vissuto anche momenti gioiosi, come quando il bosco regala funghi a volontà o quando si allarga il cuore alla vista di una bellezza nota che sorprende improvvisa o quando ho visto sorgere tutta per me una straordinaria luna piena in una notte d’agosto.
Anche grazie al lavoro fisico ho trovato un rapporto nuovo con il mio corpo, sempre presente a me. Ho ascoltato attraverso i piedi il contatto con la terra, ho guardato il divenire che il cielo racconta e assaporato il gusto dell’ equilibrio in movimenti insoliti…ho ritrovato lo sguardo limpido e l’orecchio sensibile che i lunghi anni di vita nelle stanze avevano appannato.
Grazie alla marroneta quindi per avermi offerto un’occasione di scoperta della vitalità del mio corpo, ma grazie soprattutto per le straordinarie lezioni che mi ha dato.
Imparare da anziana operazioni e gesti che mai avrei pensato di fare mi ha dato la soddisfazione di cimentarmi in campi nuovi e insieme mi ha consentito di trovare conferme concrete, fisiche, a tante idee appena sfiorate o maturate nel tempo.
La “lezione dell’ombra” che ho pubblicato in questo blog ne è un esempio: sapevo bene che lo spessore della vita ha bisogno di ombre; ma solo nella marroneta ho vissuto l’esperienza di toccare con tutti i sensi la relazione diretta, immediata, tra il primo raggio di sole e la comparsa delle ombre…e la vitalità, lo spessore, il movimento che acquista la scena: proprio quella che fa differenza tra incanto e realtà!
Le lezioni sono quotidiane e prima o poi forse le raccoglierò in maniera organica: accendere il fuoco in differenti condizioni, canalizzare l’energia verso l’alto tagliando i polloni, servirsi della forza di gravità per alleggerire la fatica, riconoscere il “selvatico” e il “domestico” (o “gentile”!), apprezzare le diversità e stabilire relazioni uniche, individuali,  anche con i gli alberi…
Confidare nella rigenerazione è però la lezione più importante e passa per l’accoglienza dei traumi e dei momenti più cupi.
La marroneta racconta storie terribili: alberi abbattuti dal fulmine e bruciati dal fuoco, rami stroncati dal vento, terre scoscese consumate dall’acqua fino a mostrare le ossa di pietra, parassiti arrivati da lontano che succhiano la linfa e trasformano rami rigogliosi in stecchi rinsecchiti; ma dice anche che nella perenne trasformazione c’è una straordinaria capacità di ricerca di nuovi equilibri, che l’humus prodotto dal disfacimento di quanto c’era prima diventa nutrimento per un domani che nessuno può dire che forma avrà, ma per il quale merita di lavorare fiduciosi.
Quest’anno il raccolto sarà drammatico: il cinipide (l’insetto venuto dalla Cina) ha minato la vitalità delle piante, la pioggia e l’estate spenta non hanno fatto gonfiare i pochi ricci attecchiti.
Eppure ogni giorno si va a prendersi cura del bosco, a tagliare le erbacce, a pulire i fossi, a riparare le stade: tocca a noi, oggi, testimoniare con atti concreti la fiducia nel futuro delle nostre montagne.

INNESTARE IL NUOVO

andrea innesta

Innestare il nuovo perchè avvenga la trasformazione che porti frutti migliori: questa è la lezione di primavera che la marroneta mi consegna.
Ho seguito ed osservato Andrea alle prese con i suoi primi innesti e, al solito, ho appreso qualcosa che va ben oltre l’evento contingente.
Il tema è quello di come cultura incontra e trasforma natura.
Si perde nella notte dei tempi il momento in cui qualcuno sperimentò la tecnica capace con un piccolo gesto di cambiare le caratteristiche selvatiche di un albero e renderlo domestico.
L’innesto è un’operazione chirurgica, il suo strumento è la lama tagliente e precisa.
Richiede le attenzioni di una sala operatoria, ma anche la conoscenza e la cura affettuosa di un vecchio amico sincero.
La mano deve essere ferma e sicura mentre impugna la sega che abbatte tutto quello che è cresciuto fino allora sopra e intorno la base scelta per l’intervento, mentre seziona e incide con la forbice e il coltello il frammento di marza con la gemma destinato ad essere inserito tra la corteccia e il legno, la dove scorre la linfa vitale.
Lo sguardo ha bisogno di essere acuto e insieme largo ed aperto: deve saper vedere differenze millimetriche e riconoscere da lontano “domestico” e “selvatico” su una stessa pianta.
Tutte le antenne della sensibilità sono necessarie per scegliere il giorno che le condizioni climatiche rendono migliore, per prevedere i rischi e mettere in atto le strategie di difesa.
L’operazione in sé è relativamente breve, ma la preparazione e la cura successiva richiedono lunghi tempi.
Vanno individuate e ripulite le basi su cui effettuare l’innesto: spesso cresciute dai polloni di un vecchio tronco o dalle radici di una base corrosa dal tempo, talvolta ricavate da un fusto di palina.
Allo spuntare delle prime gemme si tagliano le marze, giovani rami che hanno appena cominciato a legnificare, di solito nati da una drastica potatura dell’anno prima. Secchi tagli tra una gemma e l’altra definiscono poi i confini del legnetto da innesto: da una parte la gemma, dall’altra la linguetta ricavata con il coltello che sarà inserita nella base prescelta
Quando le condizioni climatiche sono favorevoli si procede all’innesto: si inseriscono uno o più legnetti gemmati tra la corteccia e il legno, si “suturano” i tagli con il mastice, si avvolge il tronco in una gabbia ricavata da grosse frasche legate strettamente in modo da svolgere la duplice funzione di contenimento e di protezione…e si aspetta.
Se tutto va bene si vedranno aprire le gemme, nascere nuove tenere foglioline, sviluppare il rametto che anno dopo anno crescerà fino a portare i suoi frutti.

Non sono diversi i processi che si mettono in atto quando il presente non ci gratifica abbastanza, non si vedono prospettive soddisfacenti per il futuro e si decide di attivare un percorso di cambiamento e arricchimento personale.
Occorrono solide radici da cui far salire e circolare la linfa: possono essere recenti o addirittura centenarie, l’importante è che sappiano cogliere il nutrimento che il terreno offre e trasformarlo in energia vitale.
Con le radici salde si può, si deve, avere la capacità di operare dei tagli che sfrondano e recidono quello che è vecchio o non funzionale e che produce frutti miseri, se non addirittura nocivi.
Il cambiamento si presenta giovane, con una storia recente… ma porta una gemma: promessa turgida e preziosa di futuri sviluppi. Si insinua fragile e sottile dove scorre sincera l’energia più vitale. Dapprima ha bisogno di protezione e di cura: si nutre, si rafforza, cresce. Produrrà nuovi frutti.

 

 

innesto