QUELLA BUCA IN TURCHIA

Ho incontrato ieri Irene, oggi donna, adolescente quando l’ho conosciuta nel viaggio in camper con amici comuni.
Il ricordo del momento cruciale della mia vita è stato inevitabile.
Era il luglio del 1985.
Avevamo percorso migliaia di chilometri, un po’ trasportati da navi traghetto, molti sulle strade bianche della Turchia, abbagliati dal sole, affascinati dall’ampiezza dei panorami e dalle meraviglie di una cultura che ci sorprendeva per la grandiosità dei monumenti antichi e il fascino essenziale delle chiese scavate nella roccia.
Quella sera eravamo tutti stanchi, dopo una lunga tappa di trasferimento, dalla Cappadocia al mare, sotto un sole torrido. Decidemmo quindi di non parcheggiare come al solito in un angolo tranquillo ai margini di una strada secondaria, ma di concederci un campeggio attrezzato.
Nella zona ce n’era uno bellissimo, segnalato da tutte le guide.
Già all’ingresso si capiva che era davvero un lusso: immerso nel verde di un boschetto su un promontorio in riva al mare. Tranquillo e molto accogliente, come gli addetti alla portineria che ci hanno indicato la disposizione dei servizi e ci hanno invitato a scegliere tra le piazzole libere quelle di nostro gradimento.
Ci piaceva l’idea di avere un vasto spazio a disposizione e di essere un po’ appartati, abbiamo percorso così quasi tutta la stradella che costeggiava il promontorio e abbiamo parcheggiato i due camper all’estremità opposta all’ingresso.
I miei amici hanno deciso di chiudere la giornata con un bel bagno in mare. Io mi sentivo troppo stanca persino per una nuotata e la sola idea di camminare sul sentiero per scendere fino all’aqua (e poi risalire!) mi faceva star male.
– Andate tranquilli! Io mi faccio una bella doccia, riposo un po’ all’ombra e comincio a preparare per la cena, così quando tornate ci facciamo un bel piatto di spaghetti.
Così mi son goduta il fresco dopo una doccia stimolante, con la pelle profumata dal sapone alla menta che mi ero portata dietro dalla prestigiosa “Officina profumo farmaceutica di Santa Maria Novella” proprio per farmi una coccola speciale se in viaggio si fosse presentato un momento di crisi.
Ricordo il frinire delle cicale, la luce che diventava più morbida, l’aria più fresca e il piacere di un tempo tutto per me a rimettere in fila le sensazioni del giorno perché mi accompagnassero a lungo nel tempo…e in effetti quei momenti si sono stampati nella mia memoria in maniera indelebile!
Mi rivedo mentre mi allontano dai camper. Indosso una maglietta bianca e un’ampia gonna blu a fiorellini bianchi e rosa. In mano ho le pentole e un barattolo con la salsa di pomodoro.
Poter usufruire di una vera cucina è un bel lusso dopo tanti giorni a far da mangiare al fornellino del camper! La zona dei servizi attrezzati è vicina all’ingresso, dall’altra parte del promontorio. Hanno già acceso le prime luci e si vede molto vicina. Non c’è bisogno di percorrere tutta la strada che fa il giro del campeggio.
Da brava cinghialotta mugellana non mi fo certo impaurire se c’è da passare attraverso un po’ d’erba alta e di sterpi. Mi incammino decisa verso la cucina.
All’improvviso, il vuoto.
La sorpresa e lo stupore mi spiazzano. Mi sembra di essere in un sogno, anzi in un incubo, come quando ad un tratto sparisce la terra sotto i piedi e si apre una voragine.
Nessun pensiero: solo la sensazione contraddittoria di precipitare velocissima e ruotare rallentata come ad una moviola con le gambe che lievitano davanti al tronco.
E poi il BIG BANG: una massa luminosa che esplode in mille stelle quando impatto per terra.
Ho ritrovato lo spazio, ma il tempo ancora non ritrova la solita dimensione dell’orologio.
Gli amici che in affanno mi hanno cercata a lungo, una volta tornati dal mare, dicono che devo essere rimasta là sotto circa tre ore. Per me un tempo indefinibille, caratterizzato dalla istantaneità del presente, con sfumate parentesi di attesa
Forse sono stata un po’ svenuta, un po’ intontita…un po’ lucidissima, curiosa ed attenta.
Dicono che nei momenti di grande pericolo l’organismo reagisce superando ogni paura. Io so che là sotto ero dolorante e sbalordita, ma con alcune solide certezze che mi davano una forza straordinaria:
– Mi voglio bene.
– Qui, ora, se non mi aiuto io non mi aiuta nessuno!
Quella stessa estate, giusto prima di partire per la Turchia, avevo partecipato ad un corso di speleologia sulle Apuane (ero avventurosa, a quei tempi…forse, in un altro modo, lo sono rimasta ancora).
Ho immediatamente ricordato le raccomandazioni che ci avevano fatto:
– Se rimanete bloccati al buio non gridate a vuoto. Questo vi fa solo bruciare ossigeno, indebolire e salire il panico. Cercate di mettervi più comodi che potete, respirate tranquilli e gridate solo se sentite qualcuno.
Mi guardavo intorno, cercando di capire cosa era successo e dove ero. Sotto di me terra fredda e sconnessa, intorno buio profondo. Solo un occhio più chiaro si apriva sopra la mia testa e lasciava intravedere il cielo…e col passare del tempo anche quello si oscurava, al sopraggiungere della notte.
Esitavo a muovermi, un po’ per il dolore, un po’ per evitare di peggiorare la situazione.
Tutt’intorno silenzio.
Poi delle voci fuori che parlano una lingua incomprensibile e la mia che mi suggerisce dentro:
– Grida ora, ti possono sentire!
– Ma come si chiede aiuto in Turchia?
– Help? Ma come si fa a gridare con un’acca che strozza la voce in gola? Io grido nella mia lingua.
– Aiuto! Aiuto!
Nessuna risposta. Le voci si allontanano. Il buio aumenta.
Di nuovo voci, rumori, le mie grida, il ritorno del silenzio.
Continuano a sostenermi le certezze scoperte quel giorno.
– Mi voglio bene. Ho fiducia in me: mi tiro fuori di qui!
Finalmente una voce che sembra rispondermi, in turco.
Il grido esce con più speranza
– Aiuto!
– Ma sei italiana? Dove sei? Non ti vedo.
– Stai attento, prendi una pila. Non so dove sono caduta.
È un miracolo o una straordinaria fortuna? Inizia il dialogo a distanza con il turco che parla italiano.
Sento altre voci…e poi una luce alle mie spalle, da un’apertura che non avevo visto.
Il mio salvatore mi sostiene. Piano piano mi accompagna verso un’uscita accessibile, percorrendo uno sconnesso percorso in salita.
Fuori si è sparsa la voce. C’è gente. Ci sono anche i miei amici che già avevano dato l’allarme per la mia scomparsa e mi stavano cercando angosciati.
Arrivo al camper sostenuta da Kudret, il mio salvatore, che si scoprirà essere figlio di un alto dirigente della Pirelli turca, vissuto in Italia per lunghi periodi e quindi capace di dialogare con noi.
C’è tanta gente intorno, forse anche un medico. Di certo mi danno un potente antidolorifico perché passi la notte. Bisogna infatti aspettare la mattina per andare a Mersin, la città dove un ortopedico mi potrà visitare.
…poi un avventuroso viaggio di ritorno: gli scozzesi con le cornamuse all’aereoporto di Adana, le “levantine” e Yldiz (che vuol dire Stella) all’ospedale italiano di Istambul, suor Giovanna, il busto con i lacci intrecciati, i formalismi di Alitalia e finalmente l’abbraccio con mio fratello Leonardo ed Emiliano bambino che sono venuti a prendermi a Fiumicino…ma questa è un’altra storia!
Da allora, nei momenti cupi, ricordo quella caduta e come proprio nel buio mi sono trovata.

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La Madonna della Candelora

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Una festa minore, quella della Candelora, ma che occupa un grande posto nei miei ricordi.
Alla periferia di Vicchio, ai margini dei campi pianeggianti vicino alla Sieve sorge la villa de La Madonna, una bella costruzione padronale affiancata da una cappella di famiglia. La posizione nel fondovalle assolato e poco battuto dal vento la rendeva una meta ideale per le passeggiate invernali.
Là tutti gli anni il 2 di febbraio si svolgeva la festa della Candelora. Ricordo che la maestra ci accompagnava in fila fin laggiù dove c’erano bancherelle che vendevano dolciumi e gruppi di uomini giocavano alla rulla, facendo rotolare lungo il sentiero una grossa forma di formaggio pecorino lanciata con la spinta di uno spago velocemente srotolato.
Era la prima uscita che preannunciava la fine dell’inverno ed era una gioia camminare all’aperto, anche se infagottate nei cappotti e con il naso che gocciolava.
Si tornava a casa con una candelina lunga e sottile nelle mani e con in bocca il sapore delle “scole”, una specie di pan di ramerino al profumo di anice dalla strana forma romboidale.

Della cerimonia religiosa e del significato della ricorrenza non ho memoria.

Forse avrei dimenticato anche la festa se qualche anno fa non avessi accompagnato mia madre in una passeggiata pomeridiana a prendere un po’ di sole. Erano i primi tempi della sua malattia, la SLA non era ancora conclamata e la mamma aveva solo bisogno di un braccio che la sostenesse nel suo incerto procedere.
Quel pomeriggio c’era un insolito movimento sullo stradello di Zufolana, in direzione de La Madonna: era prevista un’apertura straordinaria della cappella per celebrare la solennità con un rosario. Senza bisogno di parole capii che che ci saremmo andate anche noi.
Vissi così un’ora intensa di estraniata presenza: ero estranea a quel rito, non condividevo le preghiere e le giaculatorie che ascoltavo recitare con voci che mi suonavano monotone e distratte, non ero spinta né sostenuta da sentimenti di fede, eppure poche volte mi sono sentita così presente a me stessa e vicina alla mamma che, lei si, era sostenuta da una fede sincera e profonda.
È stato quello il momento in cui ho sentito che la distanza tra i nostri diversi essere donna era colmata, che eravamo madre e figlia, che lei era in me e ci sarebbe rimasta, così come io ero stata in lei e che questo non poteva esser cancellato dal mio autonomo andare nel mondo…e che un grande amore ci univa.
Con lei che recitava il rosario con sincera fede religiosa anche io recitavo la mia preghiera laica a questa grande madre che tutto accoglie e che tutto abbraccia, a cui anche io mi potevo affidare per sostenere ed essere sostenuta.
Gli anni successivi sono stati carichi di dolore, ma anche di straordinaria pienezza di vita e di amore.
Sulla tomba di mia madre c’è una ceramica dipinta che recita “Grazie alla vita, che mi ha dato tanto, che mi ha dato il riso, che mi ha dato il pianto” e raffigura il gesto accogliente della Madonna dipinta da Giotto nella “Presentazione al tempio”. La Madonna della Candelora, appunto.